«Parlando in termini morali,
pensare solo a sé
è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché
il fiore assoluto dell'individuo non è dentro di lui;
è nell'umanità intera.»
G. W. F. Hegel
«Non preoccuparti del futuro, 
ma cerca di diventare fermo e chiaro nello spirito,
perché la tua felicità non dipende dal tuo destino
ma da come riesci ad affrontarlo.»
G. W. F. Hegel

LA QUESTIONE DELL'ARTE - Nigel Warburton

Sintesi del saggio La questione dell'arte di Nigel Warburton - ed. Einaudi

introduzione

Per fare una riflessione su cosa sia l'arte l'autore prenderà in esame alcune teorie estetiche del '900 come pure alcune opere che il critico d'arte Harold Rosenberg ha definito «oggetti ansiosi».

_The Ambassador, il pavone vivo che Francis Alys ha presentato alla biennale di Venezia del 2001
_A real work of art, il cavallo di razza che Mark Wallinger ha indicato come vera e propria opera d'arte
_Fountain di Marcel Duchamp 

I sopra citati esempi sono opere d'arte che ci portano a considerare la questione dell'arte ed i legami che essa ha con la filosofia.

Scopo del libro è quello di «mettere a nudo una serie di posizioni indifendibili» e, portando esempi e contro-esempi su queste posizioni, compiere una riflessione su cosa sia l'arte. Verranno prese in esame le teorie di Clive Bell (Forma significante), Robin G. Collingwood (espressione emotiva), le considerazioni di Wittgenstein sulle somiglianze di famiglia e la teoria istituzionale.

capitolo 1
Forma significante

Clive Bell scrive nel 1914 un saggio - Art - nel quale propone una sua teoria sull'arte:
per Bell l'arte è forma significante. Un'opera d'arte, per essere considerata tale deve procurare nell'animo del fruitore una emozione estetica. Detta emozione è possibile se l'opera possiede un insieme di forme, colori e composizione tale che il filosofo definisce forma significante. Clive Bell è stato curatore di alcune mostre di Cézanne e ne è anche un profondo estimatore delle sue opere. Nell'esporre la sua teoria prende ad esempio il Lac d'Annecy del pittore post-impressionista e lo confronta con Paddington station, un dipinto di William Powell Frith del 1862.
Secondo Bell, Paddington station è una rappresentazione didascalica che mostra una stazione ferroviaria, un dipinto ben eseguito ma privo di forma significante e quindi non può essere considerato un'opera d'arte in quanto incapace di procurare una emozione estetica.

Le principali critiche a questa teoria

Le definizioni chiave «forma significante» ed «emozione estetica» sono due termini tecnici definiti uno nei confronti dell'altro in una circolarità viziosa.
La teoria viene accusata di essere élitista cioè non vi è metodo nello stabilire chi decide se un'opera possegga o meno la caratteristica di «forma significante»

Un'altra importante critica che gli viene mossa in particolare dallo scrittore e pittore David Lawrence è che questa teoria non tiene conto degli aspetti rappresentativi dell'arte realistica come pure non tiene in considerazione gli aspetti simbolici. Il genere della ritrattistica, per esempio, non può essere ridotto ad un mero intreccio di linee forme e colori: la somiglianza psicologica del soggetto rappresentato costituisce un valore importante per l'opera d'arte. Il critico d'arte John Berger fa notare che lo studio di un'opera come Le reggenti dell'ospizio di Alms di Frans Hals (1634) sarebbe inadeguato, se non si considerassero la rilevanza del contesto e le persone rappresentate. Per Berger la sola attenzione al formalismo da parte di Bell è insufficiente nello stilare una teoria sull'arte.

Per concludere, opere d'arte come i lavori concettuali di Beuys, Warhol o lo stesso Duchamp, lavori che sono ampiamente accettati nel mainstream del circuito dell'arte, non trovano invece considerazione alcuna in una teoria come quella di Clive Bell che a questo punto, appare evidente, è quanto meno inattuale.

capitolo 2
Espressione di emozioni

Robin G. Collingwood, un filosofo ed amante dell'arte britannico, figlio di un famoso acquerellista che è stato anche segretario di John Ruskin è di parere diverso, rispetto a Bell ed alla sua teoria formalista sull'arte.

Nel 1938, scrive The Principles of Art, un libro che vuole rispondere alla domanda Che cos'è l'arte?

Uno dei primi punti è quello di fare una distinzione fra arte e artigianato. Per Collingwood l'artigiano sa cosa vuol fare già prima di farlo, mentre per un'artista, sebbene a volte sia desiderabile, la progettualità non è un fattore vincolante. A questo proposito è interessante ricordare le parole di Picasso: «Non so in anticipo che cosa sto per mettere sulla tela, così come non decido in anticipo che colori usare». Inoltre la tecnica,  il mestiere, si apprende là dove è richiesto. I manufatti artistici possono richiedere competenza tecnica, però per Collingwood «tecnici si diventa, ma artisti si nasce» e l'impiego delle competenze tecniche non è un prerequisito necessario (sebbene riconosca che migliore è la tecnica posseduta, migliori i risultati). Il materiale grezzo che costituisce le opere d'arte sono tuttavia le emozioni.

Francis Bacon, in un'intervista dichiara che per lui è importante il fattore «sorpresa». Mentre sta lavorando capisce con l'istinto e risolve il problema di esprimere l'emozione che all'inizio era solo un'intuizione. La soluzione al problema non c'era prima di mettersi all'opera (qui si vedono delle analogie con la teoria estetica di Luigi Pareyson il quale afferma che l'artista inventa il modo di fare facendo). Per Collingwood arte è proprio espressione di emozioni. La contemplazione di un'opera d'arte da parte di un fruitore è anch'essa un gesto artistico in quanto l'osservatore entra in sintonia e rivive le emozioni trasmesse nell'opera da chi l'aveva inizialmente creata.

Per Collingwood l'arte magica  e l'arte ricreativa dovrebbero essere considerate due forme di artigianato, non vera e propria arte.

Per arte magica si intende quell'arte che serve ad uno scopo, come un inno nazionale che instilla il senso di patriottismo, mentre per arte ricreativa  si intende quella che ha per utilità il procurare un piacere edonistico o di intrattenimento. Per esempio, secondo Warburton, Collingwood catalogherebbe come arte ricreativa Psyco il film di Hitchcock, un'opera fatte per intrattenere il pubblico, non per una esigenza espressiva delle emozioni proprie del regista. Interessante notare che le opere di Shakespeare, create per intrattenere il pubblico, sono anch'esse ritenute arte ricreativa e quindi non vera e propria arte da parte del filosofo inglese.

Concezione espressionistica e concezione idealistica dell'arte

Oltre alla suddetta visione di arte come espressione, l'altra tendenza presente nel libro The Principles of Art è la difesa di una concezione idealistica dell'arte.

Per Collingwood l'arte non deve per forza possedere una fisicità fuori dalla mente dell'artista. Essa è già tale quando è presente nella testa di chi crea sotto forma di idea. Quindi per Collingwood un'idea può già essere opera d'arte. Inoltre, là dove le opere d'arte esistono fisicamente, l'osservatore può fare esperienza di esse in modo immaginario, oltre il visibile. Per esempio una persona che contempla il Lac d'Annecy di Cézanne può con l'immaginazione compiere un'esperienza tattile e vivere un'emozione all'interno del lago come si presuppone abbia fatto lo stesso Cézanne nel momento in cui lo dipinse.

Critiche alla teoria

Nel suo complesso, a questa teoria che chiaramente risente dell'influenza del filosofo italiano B. Croce (1866-1952) possono essere mosse due principali critiche:
_L'esclusione dallo status di opera d'arte di pressoché tutta l'arte sacra, che avendo scopo divulgativo e di propaganda apparterrebbe alla categoria artigianale dell'arte magica.
_L'inclusione nello status di opera d'arte di qualsiasi intenzione di esprimere una emozione, come pure lo status di artista attribuito all'osservatore nell'atto della contemplazione.

Le critiche alle teorie essenzialista/formalista (Bell) ed essenzialista/espressionista (Collingwood) ed il fallimento di altre simili teorie generali sull'arte, hanno portato i contemporanei a sostenere che l'arte in questi termini è indefinibile e cercarne l'essenza costituirebbe un errore logico.

capitolo 3
Somiglianze di famiglia

Negli anni '50 si incomincia a pensare che il termine arte non sia definibile secondo un comune determinatore che ne mostri l'essenza e si pensa che esistono termini che possono essere definiti solo in base ad un intreccio di caratteristiche comuni ma non necessarie o esclusive.

I filosofi dell'arte arrivano ad elaborare questo concetto sulle riflessioni di Wittgenstein il quale appunto era arrivato alla conclusione che termini come gioco o linguaggio non hanno una loro essenza comune ma possono essere capiti solo in base ad una rete di caratteristiche che si sovrappongono che Wittgenstein chiamerà somiglianze di famiglia.

Per chiarire il concetto Wittgenstein prende in esame il termine gioco e fa notare che in alcuni giochi si vince e si perde, in altri no. In altri ancora il divertimento è fondamentale mentre a volte la competizione è di gran lunga superiore al divertimento che scompare completamente. Ecco quindi che non esiste una unica caratteristica che indichi tutti e solo i giochi, così come una singola fibra non corre per tutta la lunghezza di una corda.

Wittgenstein non analizza nel concreto il concetto di arte, cosa che invece fa Morris Weitz nell'articolo The Role of Theory in Aesthetics 1956. Weitz, che possiamo considerare neo-wittgensteiniano, parla di arte come di un concetto aperto cioè un concetto che si riserva la possibilità, nel corso del tempo, di allargarsi ed includere nuove definizioni o condizioni all'interno di esso. Per Weitz non è possibile definire arte attraverso un concetto chiuso perché così facendo se ne danneggerebbe l'aspetto importantissimo della creatività. Rimane fondamentale per Weitz che il compito di ampliare questo concetto spetta in genere ad esperti, o a critici di professione. In altre parole l'arte si fonda su caratteristiche di innovazione ed originalità tali che se si provasse a chiuderne il concetto mettendo dei paletti, presto diventerebbe tutta uguale a se stessa e ce ne stancheremmo.

Critiche

I principali punti deboli della teoria di Weitz riguardano quali somiglianze siano da ritenersi utili nel confronto tra la presunta opera d'arte e casi paradigmatici precedenti, e a chi spettano queste scelte. Ad esempio l'Empire State Building ed uno spillo hanno molti tratti in comune: entrambi sono stati costruiti per uno scopo preciso, hanno una forma allungata e a punta, ma ciò evidentemente non basta a dire che in tutti e due i casi si tratti di grattacieli. In altre parole le somiglianze qui prese in considerazione non sono adeguate e la principale critica mossa a Weitz è appunto quella di definire quali somiglianze sono accettabili e quali invece no.

Inoltre, se per definire un'opera d'arte dobbiamo obbligatoriamente fare un riferimento con dei paradigmi precedenti, rimane il problema di come è stata definita la prima opera d'arte della storia: essa non aveva certamente casi paradigmatici con cui confrontarsi.

Il filosofo americano Maurice Mandelbaum (1908-1987) era scettico circa la teoria anti-essenzialista di Weitz. Il fatto che teorie essenzialiste precedenti quali quella di Bell oppure quella di Collingwood avessero fallito non è una certezza circa le possibilità di giungere ad una nuova teoria. Egli fa notare che nelle somiglianze di famiglia possono esistere dei tratti comuni essenziali non esibiti, ed il fatto che non sono esibiti non significa che essi non esistano. La teoria costituzionale di George Dickie analizzata nel prossimo capitolo farà infatti riferimento ad una proprietà comune non esibita.

capitolo 4
Contesti istituzionali

La teoria istituzionale è una teoria che si propone di identificare lo status di opera d'arte in base a delle proprietà che non sono necessariamente visibili nell'opera. È una teoria che, in altre parole, ci spiega o tenta di spiegarci perché Fountain di Duchamp è un'opera d'arte e non un gabinetto capovolto. In seguito agli sviluppi post-duchampiani, la presenza nella realtà di opere come The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone living di D. Hirst, le Brillo boxes di Andy Warhol e tantissime altre opere del periodo contemporaneo rendono necessario rivedere il concetto di arte. Le teorie funzionalistiche come La forma significante di Bell è evidente che sono diventate inadeguate infatti esse non includono queste opere che ormai sono state accettate nel mainstream del circuito dell'arte da parte delle istituzioni.

Autore di questa teoria è il filosofo americano George Dickie che si muove partendo dalle considerazioni del critico e filosofo Arthur Danto, il quale, osservando la Brillo Box di Andy Warhol che visivamente è molto simile alla omonima scatola di detersivo, si domanda cosa rende la prima, un'opera d'arte. Poiché la differenza dalla normale scatola di detersivo non risiede in un elemento visivo egli giunge alla conclusione che è la teoria, cioè un qualcosa di non visibile, a renderla diversa. Per Danto, oggetti indistinguibili visivamente possono avere proprietà molto diverse.

Vedere è un'attività impregnata di teoria e quello che noi sappiamo su ciò che vediamo influenza l'esperienza che ne facciamo. John Berger nel libro Ways of seeing sottolinea che il dipinto di Van Gogh di un campo di mais con alcuni uccelli che volano assume un aspetto diverso, negli occhi dell'osservatore, se questi sa che si tratta dell'ultimo dipinto di Van Gogh, quello immediatamente precedente il suo suicidio.

La teoria istituzionale nella sua prima stesura dice che l'opera d'arte è un artefatto ed ha un insieme di aspetti per quali le è stato conferito lo status di candidato per l'apprezzamento da parte di una o più persone che agiscono per conto di un'istituzione sociale (che sarebbe poi il mondo dell'arte)

Considerazioni
_La teoria potrebbe sembrare élitista in realtà non lo è perché Dickie considera «persona appartenente al mondo dell'arte» chiunque si ritenga tale e considera «artefatto» qualsiasi cosa venga scelta da qualcuno ad essere candidata all'apprezzamento. Per esempio anche un pezzo di legno levigato dagli agenti atmosferici semplicemente prelevato o addirittura indicato, lasciandolo là dove si trova, diventa, per il filosofo, un artefatto.

_Fondamentale è che Dickie sta dando una definizione «classificatoria», non «valutativa». Egli non dice per esempio che lo squalo di Hirst sia degno di essere apprezzato (valutazione) bensì dice che è un'opera d'arte perchè (1): è un artefatto, (2): l'artista stesso l'ha investito del ruolo di candidato per l'apprezzamento, in questo caso presentandolo in una mostra.  Anche se si disprezza questo lavoro di Hirst, se si dice «ma quello non è arte!», si sta usando il termine arte in modo valutativo mentre per Dickie la definizione di opera d'arte è meramente classificatoria (non a caso usa il termine candidato per l'apprezzamento).

_Le opere di esponenti dell'art brut o outsider artists - artisti che non sanno di essere tali, ad esempio persone con problemi psichiatrici - trovano la collocazione nello status di opere d'arte solo dopo che qualcuno che appartiene coscientemente al mondo dell'arte le ha prese in considerazione e le ha candidate all'apprezzamento. È un esempio il caso di Alfred Wallis, un marinaio in pensione che dipingeva «per compagnia» delle navi, e che è stato scoperto dai pittori Nicholson e Wood. Le opere di Wallis oggi sono pienamente accettate come opere d'arte anche se al momento della loro creazione erano il semplice passatempo di un uomo in pensione che aveva da poco perduto la sua compagna.

***

Critiche alla teoria istituzionale di Dickie

_Dando la possibilità a chiunque di conferire lo status di opera d'arte, Dickie viene accusato di banalizzare il concetto stesso di arte e di non fornire informazioni utili su cosa essa sia.
_La critica più sofisticata consiste nel chiedersi perché certi oggetti vengono candidati all'apprezzamento ed altri no. Se ci fosse un motivo, questo motivo sarebbe esso stesso una teoria e quindi scalzerebbe la teoria istituzionale. Se invece non c'è un motivo a questo punto la scelta assume i connotati di un evento casuale e capriccioso.

Dickie, consapevole di queste inadeguatezze, rielabora la sua teoria definendo in modo più specifico e complesso la figura dell'artista, del pubblico, e del mondo dell'arte. Inoltre presenta un'ulteriore definizione di opera d'arte. Questa seconda teoria, però, perde l'eleganza e la semplicità della prima e in fondo non risolve le domande «che cos'è l'arte?» e «Ma è arte», principalmente perché chi si pone queste domande è interessato ad ottenere una risposta di tipo «valutativo». In altre parole è di scarso interesse sapere che un oggetto sia o meno un'opera d'arte, se poi la parola «opera d'arte» è vuota di valore.

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Un'alternativa: Jerrold Levinson e la sua teoria storico-intenzionale

Levinson, convinto che si potesse formulare una teoria essenzialista basata su proprietà comuni non esibite, prende spunto dalla teoria istituzionale di Dickie per elaborarne una propria la cui definizione è:
«Un'opera d'arte è una cosa (articolo, oggetto, entità) che è stata seriamente intesa per essere considerata-come-un'opera-d'arte - ovvero considerata nel modo, qualunque esso sia, in cui precedenti opere d'arte sono o sono state correttamente considerate»
Per Levinson è importante l'intenzione da parte dell'artista - che può essere anche un intenzione inconscia, includendo gli outsider artists - ed è importante possedere i diritti sull'oggetto che viene trasformato in opera d'arte (non si può dichiarare tutto il mondo un'opera d'arte).

Anche la teoria di Levinson però risulta troppo inclusiva. Per l'autore del libro tutti i più importanti tentativi filosofici di definire l'arte si sono dimostrati in qualche misura inadeguati.

capitolo 5
Conclusioni

Appurato che il formalismo di Bell, l'espressionismo di Collingwood, la negazione di Wittgenstein sulla possibilità di una teoria essenzialista e la teoria istituzionale di Dickie non hanno, in modo inconfutabile, risposto alla domanda «Che cos'è l'arte?», Warburton si accinge a trarre le sue conclusioni:

Egli pensa che probabilmente non ci sia una spiegazione omnicomprensiva di che cosa sia l'arte e quindi ha poco senso impegnare la propria vita nella ricerca di una definizione. Ciò che invece è importante, considerato il ruolo centrale che l'arte può occupare nella vita di ognuno, è relazionarsi di volta in volta con delle opere specifiche e concrete, cercando di capire perché esse, in quel particolare caso, sono delle opere d'arte. L'autore attribuisce quindi una connotazione positiva al significato stesso della parola arte un valore aggiunto e non un mero atto classificatorio. Ritiene inoltre che se ne possa parlare pur nella consapevolezza del fatto che si tratta di un termine che nella sua essenza, rimane non definito.

versione in pdf

«Gli artisti hanno bisogno della teoria dell'arte come gli uccelli dell'ornitologia»
Barnett Newman
Le reggenti dell'ospizio di Alms - Frans Hals - 1664
«Se un uomo vuole essere davvero presente fra le cose che lo circondano, non deve pensare a se stesso, ma a quello che vede. Deve dimenticare se stesso per essere lì; e da questo oblio nasce il potere della memoria. È un modo di vivere la propria vita affinché nulla vada mai perduto».
Paul Auster, L'invenzione della solitudine (1982)

LE FORME DEL BELLO - Remo Bodei

Sintesi del saggio Le forme del bello, un libro di Remo Bodei - ed. il Mulino

introduzione


I concetti di bello e di brutto non possono essere ridotti ad un mero ambito di soggettività. Allo stesso tempo c'è la consapevolezza che il loro significato non è unico e monolitico nel corso del tempo anzi, è un insieme di stratificazioni avvenute nel corso degli anni.

In breve, i sette principali modelli di bellezza:

a. Bello inteso come armonia, ordine, proporzione, simmetria. E' un bello oggettivo che si presta a costituire la trinità del bello, vero, buono.

b. Bello imponderabile. Esso si esprime con la vaghezza, il "non so che" (esatto opposto del bello in "a.")

c. Bello finalizzato, funzionale, atto allo scopo.

d. Bello inteso come semplicità. Ad esempio, la bellezza di un colore puro nella sua fisicità, o quella di un suono.

e. Bello inteso come luminosità, folgorazione, un improvviso emergere dall'oscurità.

f. Bellezza collegata all'eros. Sia a livello sensibile/sensuale, che a livello spirituale (delirio divino). È quest'ultimo, oltre il sensibile, il bello che appartiene alla sola sfera dell'intellegibile.

g. La bellezza del «brutto» in quanto autentico. Siamo qui di fronte ad un completo rovesciamento dei ruoli che si verifica dalla seconda metà del 1800.


capitolo 1
Misura e ordine


Nella Grecia arcaica la bellezza viene intesa come ordine che emerge dal caos.

Pitagora, attraverso i numeri, individua il rapporto 3 : 4 : 5 (in musica questo rapporto tra la lunghezza di corde acustiche forma le note do - mi - la, un accordo di LAm). Il suono che ne risulta è  un'armonia e la conseguenza più importante è che ad una bellezza armonica(sensibile) ne corrisponde una intellegibile, quella cioè dei numeri nel loro rapporto.
Pitagora, inoltre, iscrive ogni forma di bellezza in un contesto globale che chiamerà kosmos.

Questo kosmos obbedisce a leggi che possono essere individuate attraverso i numeri.

Armonia, simmetria e euritmia (armonia sensibile), per i pitagorici danno commensurabilità alle parti.
Attraverso il suo teorema, elevando al quadrato i lati di un triangolo rettangolo ne trova il loro rapporto e la loro commensurabilità. «La razionalità che scaturisce dalla moltiplicazione dell'irrazionale per se stesso».
In questo modo si forma il legame bello-vero-buono destinato a diventare la culla del razionalismo occidentale.

L'ordine cosmico rimarrà un modello di bellezza in tutto l'occidente attraverso i secoli, senza subire troppe variazioni.

nota_
- Per S. Agostino nel medioevo misura, ordine e armonia sono opera divina. Là dove non capiamo, ci vuole fede.
- Nel 1509 Luca Pacioli scriverà il de divina proporzione.

Periodo barocco a parte, dove avviene un rifiuto della bellezza intesa come armonia e ordine, con Newton si riprende in considerazione la trinità del bello-vero-buono anche se i concetti, pur conservando una parentela tra loro, si differenziano nel seguente modo:
La verità apparterrà alla scienza, la bellezza all'arte.

***

Attacchi all'esplicita simmetria/bellezza/ordine cosmico di Pitagora.

- Eraclito già nel 500 a.c. dice che l'armonia è più forte quando è nascosta sotto la superficie.
- In oriente ed in estremo oriente la simmetria appartiene solo a dio.
- Nel barocco c'è un rifiuto dell'ordine apparente, considerato troppo banale.

Con Platone assistiamo alla separazione del bello dal vero/buono.
Vero e buono appartengono alla parte razionale dell'anima, il bello a quella irrazionale.

Platone riconosce all'arte - soprattuto alla musica e alla poesia - il potere di affascinare la nostra parte irrazionale e passionale dell'anima. Per questo invita a diffidare di essa, in quanto ci allontanerebbe dalla verità. Egli però condanna e rinnega solo la bellezza e l'arte illusoria, sarebbe scorretto etichettarlo come un nemico dell'arte.

capitolo 2
Tutti i volti del bello


Vista e udito sono stati considerati i sensi principali a trasmettere l'esperienza del bello perché sono i più commensurabili e quindi quelli meglio traducibili dall'intelletto. Di conseguenza sono anche i più oggettivi.

Vista e udito nella cultura greca rimangono i sensi principali; nella cultura ebraica, invece, dove c'è il divieto di creare immagini, sono gli odori ad acquisire importanza.

L'olfatto diventa importante in occidente dopo la metà del '700. Attraverso la parola e le immagini si cerca di trasmettere i sensi dell'olfatto, del tatto e del gusto. Con l'evolvere della tecnologia cambiano le forme e gli stili artistici, nonché le loro potenzialità espressive.

***

Il vago

La bellezza del vago, ad esempio nelle opere di Turner, si oppone alla bellezza del definito, appartenente alla classica Grecia. Vi è nel vago una volontà di crittografare le opere, di non voler aderire a canoni prefissati, in altre parole un accresciuto ruolo della creatività.

Sebbene già nel 1300 Petrarca introduce nella bellezza l'attributo del non so ché, è nel romanticismo che il vago e lo sfumato diventano poetici per eccellenza.

Leopardi con l'infinito mostra la potenza dell'immaginazione - capace di emozionarci più di quello che farebbero i nostri sensi percettivi - quando ci spinge ad andare oltre quella siepe. È la privazione sensoriale a stimolare la capacità penetrante dell'immaginazione. La forza di Leopardi sta anche nel creare una tensione tra il definito della siepe e il vago dell'infinito oltre la siepe.

La vaghezza porta a considerare belli gli schizzi non finiti (E. Burke) e l'idea che l'imperfezione sia meglio del perfettamente definito.

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Bellezza funzionale

Bello e utile possono coincidere.
Già Socrate, descritto da Senofonte, diceva che uno scudo d'oro è così pesante e inutile che è meno bello di una pattumiera.

La spada può avere un'elsa tempestata di diamanti ma la lama deve essere affilata e tagliente.

Nonostante il conflitto tra il bello funzionale e il carattere «disinteressato» del bello - caratteristica della riflessione moderna almeno da Kant - nella seconda metà del '700 la formazione della professione dell'architetto si collega istituzionalmente a quella dell'ingegnere.

Nel Bauhaus troviamo un accento sulla funzionalità ed una negazione dell'ornamento. Il "Dio" di Newton crea in economia, con la minima spesa. Bello è ciò che viene spogliato del superfluo. Per Marinetti il cofano di una vettura da corsa è più bello della Nike di Samotracia.

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Complessità e semplicità del bello

L'evolversi del concetto di bello da immediata e banale simmetria porta a due sbocchi: da un lato, complessizzare la forma per rendere l'armonia sottostante meno decifrabile; dall'altro semplificare  (Plotino).

Complessità
Un esempio di ricerca nella complessità è dato da Keplero, il quale scopre che le orbite dei pianeti non sono dei semplici cerchi ma li individua prima come ovali e poi come ellissi. Baltasar Gracián nel 1648 con il suo L'acutezza e l'arte dell'ingegno sottolinea l'importanza del «concetto» inteso come l'equivalente intellegibile della bellezza. Per Gracián la bellezza non banale può essere intesa solo da chi è colto e dotato di buon gusto.

Semplicità
Per Plotino (ca 200 d.c.), se il risultato è bello, i singoli elementi che lo compongono devono essere anch'essi belli.
Per Winckelmann (prima metà del '700) la bellezza è come l'acqua della fonte: quanto più è in sapore, tanto più è pura.
Alla luce di queste considerazioni acquistano quindi valore la bellezza di un singolo suono, la purezza di un colore nella sua essenza.

***

Bellezza come luce

In questo caso la bellezza viene intesa come un emergere delle forme dalle tenebre. Per Platone la bellezza è «risplendente a vedersi» (Fedro, 250 b.c.).

Hegel nell'estetica scrive della luce all'interno delle cattedrali gotiche, che filtra dalle vetrate colorate. Esse modificano la luce naturale e, assieme ai ceri, creano una luce spirituale. In epoca moderna, la presenza di fonti diverse di luce artificiale e fredda ha desacralizzato, despiritualizzato o quantomeno attenuato questo effetto.

Heidegger, ne l'origine dell'opera d'arte, parte dal concetto di Schönheit, intendendolo come chiaroscuro, come la luce che filtra da un bosco, rivelandone alcune zone. L'opera d'arte è per Heidegger un'apertura, uno svelamento. Egli dirà anche che «l'arte è il porsi in opera della verità» intendendo con essa, la verità dell'ente.


capitolo 3
Bellezza spirituale


Il prevalere della scrittura sull'oralità in antica Grecia rompe l'equilibrio tra bello intellegibile e sensibile. La bellezza intellegibile decolla e assume più importanza mentre a quella sensibile rimane il compito di alludere alla prima.

Platone
Per Platone la bellezza ideale va oltre quella sensibile. Divinatoria, mistica, poesia ed erotica sono le quattro forme di delirio divino. Il poeta quando si esprime è un messaggero attraverso il quale l'uomo comune può elevarsi. Per Platone poesia e musica sembrano le due forme d'arte più adatte ad elevarsi. Quando il poeta è trascinato dall'entusiasmo, egli parla secondo l'ispirazione divina.

La scrittura - composta da simboli fonetici, segni astratti con poco pathos e tanto senso di razionalità - innalza la bellezza intellegibile nei confronti di quella sensibile.

Nella Repubblica di Platone si legge che solo attraverso l'intelletto si può raggiungere la «realtà che realmente è, senza colore, senza figura tangibile».

Per Platone il bello è l'elevazione dell'anima che viene a contatto con il divino. Questa elevazione è facilitata dalla poesia e dalla musica, ma non dalla pittura e dalla scultura. Attenzione però: pittura e scultura vengono condannate solo quando assumono i connotati dell'artifizio e dell'illusione.

Plotino (circa 200,270 d.c.)
Il bello ci guida verso il bene, che è sempre presente, ma bisogna trovarlo illuminando l'essere. Ciò si compie con un cammino verso la casa del padre spogliandosi del superfluo, levigando gli spigoli come uno scultore fa con la pietra, togliendone la parte non necessaria (analogia con le affermazioni di Michelangelo).

Per Plotino il bello ci può guidare, ma ciò che veramente conta è il bene. Il bello va tenuto sotto controllo in quanto può ingannare.

Agostino (350-400 d.c.)
Il pensiero di Agostino ha delle similarità con quello di Plotino però con una differenza: per Agostino l'ultima destinazione è il congiungersi con l'assoluto, la patria celeste.
Agostino parla di una bellezza imponderabile, celestiale, che infiammerà gli animi di poeti come Dante.

***

L'epilogo della bellezza spirituale nell'epoca moderna

Gli effetti della secolarizzazione portano a considerare che il bello rinvii solo a se stesso. Di conseguenza il sensibile riacquista un suo ruolo e spazio: sensibilità e fantasia permettono di andare oltre i binari del razionale. Ciò funge anche da consolazione alla presa di coscienza del destino di un'inevitabile scomparsa.

Nell'epoca della produzione di massa si fa strada il concetto di estetica diffusa: il bello si trova anche nel  design. Questo moltiplicarsi del bello da un lato porta al kitsch, dall'altro aumenta l'esperienza di bello per milioni di persone e ne affina il gusto. Viene inoltre accettato che la bellezza sia effimera.

Che la bellezza rimandi solo a se stessa è un concetto che appare chiaro se pensiamo alla musica: essa non dice che quanto dice o meglio: non dice niente ma ti trasporta in una realtà nel momento in cui si fa esperienza di essa.

Per Benedetto Croce il bello è espressione di un'intuizione.

***

Dal bello al sublime

Pseudo Longino (Anonimo del sublime, 1 sec d.c. ma riprodotto nel 1600)
La bellezza sublime è l'eco della grandezza d'animo. Il sublime innalza l'uomo e lo fa sentire più grande  del mondo che lo circonda.
(da notare che egli considera bello e sublime ancora insieme)
ritradotto nel 1550/1600, il trattato di Pseudo Longino ci fa capire il perché del barocco, i suoi punti di vista soggettivi ravvicinati, la sua drammaticità e teatralità, la sua verticalità. (Per A. Hauser il barocco è anche una conseguenza della controriforma, con la sua arte di facile comprensione per il popolo, se paragonata a quella manierista destinata ad un pubblico colto e raffinato).

Nel contemporaneo il concetto di sublime va a recuperare il brutto, che si oppone alla «graziosità» e quindi alla banalità del bello.

Il sublime, grazie alle scoperte scientifiche del '600, corrisponde anche alla voglia di esplorare attraverso il progresso e compiere viaggi di avventura. La consapevolezza di essere fisicamente limitati ma con la voglia di misurarsi con la grandezza che ci circonda, ad esempio con i viaggi sulle Alpi, la discesa nei crateri dei vulcani.

Edmund Burke (Inchiesta sul bello ed il sublime - ca 1750)
Per Burke il sublime è tutto ciò che può destare terrore o senso di pericolo, purché ciò avvenga da una minima distanza di sicurezza. È l'inizio del terribile, che si può ancora sopportare.
Il sublime è l'inquieta grande anima della modernità.

Kant  (sublime = erhabene, elevato)
Per Kant il sublime è ciò che è degno di ammirazione e rispetto. Ciò che crea choc, una dimensione verticale dell'io che cerca l'assoluto. La bellezza viene quindi relegata a graziosità (es.: boschetti, ruscelli)
Il sublime è inoltre di due tipi: matematico (l'assoluto, l'infinito) e dinamico (grandi eventi della natura che mettono in luce le fragilità dell'uomo).

Il sublime ha un effetto perturbante che porterà all'estetica del brutto.


capitolo 4
La storia del brutto


Il concetto di brutto può essere visto, analizzato e schematizzato in sette epoche.

1. Calco negativo del bello
Nelle epoche in cui veniva accettata la trinità del bello-vero-buono, brutto corrispondeva all'esatto opposto. Per Platone esso è il calco in negativo del bello.
L'idea della bruttezza intesa come privazione d'essere si manifesta attraverso i millenni: da Platone a Croce (e per certi versi persino ad Heidegger)

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2. Il brutto nel cristianesimo
Il brutto viene accettato nel cristianesimo dove Cristo, flagellato e sofferente, viene raffigurato brutto per essere più vicino ai mortali. Ne sono un esempio alcuni crocifissi medievali.
Lo stesso Hegel dirà nell'estetica «non si può raffigurare nelle forme della bellezza greca Cristo flagellato, coronato di spine, trascinante la croce fino al luogo del supplizio, crocifisso agonizzante nei tormenti di una lunga e martoriata agonia» (p. 604).

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3. Il brutto come ingrediente del bello
Ad un certo punto il brutto viene accettato come una componente del bello, ma solo in poesia, dove è possibile, anzi desiderabile avere una parte di brutto da alternare al bello. In pittura, invece, poiché è inevitabile la compresenza di tutte le parti, il brutto non viene considerato.

Ne parlano Lessing nel suo Laocoonte del 1766 e Schlegel dirà che il godimento perfetto, privo di inquietudine, è ormai divenuto irraggiungibile.
Sempre Schlegel, e anche Hölderlin, considerano il caos e l'anarchia dei punti di partenza dai quali può originare l'ordine. La dialettica riconosce quindi la «positività del negativo».

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4. Metamorfosi del brutto
È nel periodo tardo romantico di Hugo e Baudelaire che avviene la metamorfosi completa per cui il brutto è bello, e viceversa.
L'arte sceglie come terreno privilegiato i luoghi del brutto e del disordine: deformità del corpo e dell'anima, bassifondi, le fogne della società, soprattutto la società metropolitana.
È questa l'epoca del Quasimodo di Notre-dame de Paris.

Tale concetto è odiernamente attuale, basti considerare Apollinaire: «oggi amiamo la bellezza quanto la bruttezza». In realtà già Aristotele riteneva che attraverso le arti ed una adeguata rappresentazione, pure i disegni delle bestie ed i cadaveri possono risultare non solo tollerabili, ma persino gradevoli.

John Constable dirà a una conoscente: «Non c'è niente che sia brutto, non ho mai visto una cosa brutta in vita mia: qualunque sia la forma di un oggetto, la luce l'ombra e la prospettiva lo faranno sempre bello».
Da qui ne segue che tutto è degno di attenzione estetica, ad esempio le scarpe di Van Gogh oppure i suoi volti di donne insignificanti/ordinarie.

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5. L'arcangelo del bello

La 5° epoca è quella dell'estetica del brutto di Karl Rosenkarnz (1853).

Rosenkranz ha le sue premesse in Hegel il quale dice:
- Il brutto si ricollega al dolore che il cristianesimo introduce in occidente.
- Nello spirito (del quale l'arte è manifestazione) vi è una tensione tra le tentazioni che provengono dal basso e il nostro desiderio di purezza che ci fa tendere in alto, alla ricerca dell'assoluto.
- Il bello, che è «manifestazione sensibile dell'idea» conserva in sé le tracce del negativo che ha dovuto di volta in volta superare.

Per Hegel le forme più elevate di rappresentazione artistica sono tragedia e commedia con le loro tensioni interne nelle quali il brutto ha un ruolo dialettico con il bello.

Per Rosenkranz un'opera d'arte è tanto più bella e riuscita quanto più sono grandi il caos e la disarmonia sui quali essa è riuscita a trionfare.
La bellezza, per diventare tale, deve rischiare di mettersi in gioco andando a scontrarsi con l'amorfo, l'asimmetrico, il disarmonico, lo scorretto, lo sfigurato, il ripudiante e il diabolico. Una gelida simmetria è semplicemente e banalmente perfetta quindi inaccettabile.

È il brutto che stimola il bello ad affermarsi.
Esempi di trionfo sul caos e il disordine sono alcune sonate di Beethoven e La grande Fuga op. 132.
- Per Rosenkranz il brutto è bellezza perversa.
- Il bello, non può emergere dal brutto, se chi guida la lotta è un artista dilettante e/o presuntuoso. Nemmeno se chi lotta è un iper-romantico al quale piace farsi sedurre dal brutto e abbandonarsi alla follia.
«L'arte non può lasciare alla follia l'ultima parola»

I grandi che hanno risolto magistralmente questa lotta tra caos e ordine sono: Dante, Michelangelo, Shakespeare, Mozart, Goethe.
«L'arte eccelsa trova il suo terreno più fertile in prossimità degli abissi»

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6. I mostri di Guernica

Con Adorno e la sua Teoria estetica, pubblicata postuma nel 1970, assistiamo ad un completo capovolgimento.
Il brutto si trasforma nel bello, in quanto reale ed autentico. mentre il bello è brutto, cioè falso, immorale, superficiale.
Adorno dice che il brutto è un dato di fatto. Racconta l'aneddoto su Picasso dove un ufficiale tedesco, quando gli chiese circa Guernica: «L'ha fatto Lei?» lui rispose: «No, Lei».

L'arte però non deve glorificare il brutto così come le si presenta. Essa deve continuamente inventare le forme adatte ad emanciparlo. Deve costantemente cercare di sprigionare la superiore bellezza in esso racchiusa.

Le guerre e soprattutto Auschwtiz hanno messo sotto gli occhi di tutti il brutto e la sofferenza. L'arte moderna è in lutto e non può esentarsi dal rappresentare la realtà di questa sofferenza in una catarsi per ora irrisolta

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7. Il brutto nel contemporaneo

Il contemporaneo, grazie alla tecnica, ha permesso il diffondersi dell'arte nella sua riproducibilità portandola a conoscenza di tutti.
Si forma così una élite colta che usa il gusto estetico per distinguersi dalla massa, una élite fatta di collezionisti, critici e galleristi che mantengono un grado di esclusività attraverso il decollo delle quotazioni nel mercato dell'arte.

Non mancano però le contaminazioni:
Artisti come Warhol e Lichtenstein hanno prelevato idee e concetti dalle forme d'arte popolare come il fumetto, la pubblicità per poi proporle all'élite oligarchica del mercato dell'arte.

In questa settima, ultima epoca del brutto qui analizzata si possono individuare tre possibili sbocchi:

- Sdrammatizzazione del brutto, del falso e del cattivo

- Rinnovata esigenza della spiritualità a causa delle nuove angosce del contemporaneo

- Un misto delle due precedenti ipotesi: un uso semi-secolarizzato del mito dell'arte. (un esempio è dato dalle edicole che sorgono ai bordi degli incroci stradali dove sono avvenuti incidenti mortali)

La società contemporanea sembra ormai diventata insofferente nei confronti dell'arte brutta. Il trasgredire alle regole non stupisce più e il pubblico sembra avere superato quella fase di cordoglio adorniano e si sente desideroso e pronto a tornare a gioire della esperienza estetica.

Per Remo Bodei la vera forma del brutto nel contemporaneo è quella dello squallore, dell'insignificante, il trionfo della banalità e della chiacchiera, lo stordimento mentale, l'inaridimento percettivo ed emotivo, il virtuosismo fine a se stesso.

Ciò non significa assolutamente che Bodei pensi ad un'ennesima «morte dell'arte» poiché il bello tiene sempre in serbo l'arma della sorpresa

La riflessione estetica non è quindi giunta ad un termine ma è un continuo divenire, un continuo varcare la soglia di fronte a singole opere d'arte.
Annunciazione - dettaglio - Pontormo, cappella Capponi, Santa Felicita - Firenze
Mosé difende le figlie di Jetro - Rosso Fiorentino
Sposalizio della vergine - Rosso Fiorentino -

LO SGUARDO VAGABONDO - GIAMPAOLO NUVOLATI

LO SGUARDO VAGABONDO
il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderni


Esordio.
descrizione generale del libro

Il flâneur è una personaggio curioso, interessato da ciò che avviene attorno a lui. Osserva la folla ed i suoi comportamenti, intento a carpire i rapporti di causa effetto che in essi si evidenziano.
Nasce nell'epoca moderna, Baudelaire nei boulevard parigini è un esempio lampante, ma nella surmodernità non è più legato ad una singola metropoli, bensì tende ad essere un viaggiatore.

Esso però è diametralmente opposto al turista di massa, che tra l'altro osserva e snobba. Il flâneur ha i connotati dell'esploratore ed evita appositamente i percorsi preconfezionati dei viaggi organizzati.

Oggi è possibile anche delineare la figura del cyberflâneur, colui che naviga su internet e quindi fisicamente non si sposta.

Solitudine.
Il flâneur parte da una condizione di solitudine, per poter essere esploratore della realtà circostante.
La sua posizione è una tensione in equilibrio tra la necessità di essere all'esterno per osservare il quadro d'insieme e l'essere coinvolto per poter fare esperienza autentica. Da una parte distacco, dall'altra coinvolgimento. Il coinvolgimento e la contaminazione sono però strumentalizzati alla conoscenza.
In questa fase ci sono anche rischi che il flâneur decide di correre, un esempio è la sperimentazione delle droghe da parte di W. Benjamin che con il suo comportamento mostra una fusione tra la volontà di analisi scientifica della realtà e la disponibilità dell'intellettuale stesso a mettersi alla prova.

Se però il flâneur è contaminato dalla realtà nella quale si è immerso, la completa realizzazione del suo procedere si compie solo quand'egli è in grado di rielaborare le sue esperienze vissute attraverso fotografie oppure scritti, o altro materiale. (contaminazione strumentalizzata all'apprendimento, successivo distacco quando l'apprendimento è venuto) - Vive nella folla, ma si percepisce fuori di essa, o almeno sulla soglia.

Per Jonathan Franzen, nella sua raccolta del 2011 Come stare soli, la solitudine - dello scrittore ma anche del lettore - è una condizione dolorosa ma necessaria per recuperare la propria individualità, spesso offuscata, disturbata, nascosta dal rumore di fondo della cultura di massa.

Anche Paul Auster - flâneur per eccellenza - attraverso il saggio L'invenzione della solitudine, mostra lo stare soli come una condizione di sofferenza ma anche propizia per il mestiere della scrittura.

Il flâneur nella solitudine compie una lettura critica della quotidianità, compie un opera di de-costruzione/ricostruzione della realtà e per fare ciò avverte la necessità di essere libero, condizione che conquista attraverso la solitudine e l'indipendenza. Non a caso spesso gli amori sono di tipo mercenario (rimando a Baudelaire che andava a prostitute).


Ozio.
L'ozio per il flâneur è necessario in quanto solo il rallentamento dei tempi gli consente un'osservazione più profonda e una relazione più acuta. Esso però da solo non è sufficiente.
Ancora una volta la figura del flâneur richiama due poli opposti: ozio ma anche concentrazione.
Spensieratezza nel vagabondare ma ansia nella ricerca.
Per il flâneur l'ozio è l'arte dell'attesa. Potremmo anche dire la pazienza dell'attesa. A differenza del turista che ha un tempo limitato e deve fare uso efficiente delle sue ore a disposizione per poter trarre il massimo profitto dal suo viaggio, il flâneur senza questi vincoli temporali può calarsi nella realtà del luogo, viverla secondo quelli che sono i suoi tempi naturali e capirla in profondità.

Tempo e Spazio.
La società tardo-moderna è in continuo movimento - liquida direbbe Bauman - ed il modo in cui le località urbane (gli spazi) vengono abitate dalla popolazione cambia nel tempo. A seconda che residenti o non residenti siano presenti in una determinata area, riusciamo ad identificare quartieri di uffici, quartieri dormitorio, quartieri fantasma, ghetti e così via. I mezzi di rilevazione statistica come il censimento non sono più adeguati per l'osservazione della realtà poiché essi sono statici mentre la tardo-modernità è dinamica. Per superare questi limiti si cercano nuovi modi per studiare i comportamenti di mobilità. Daniel Quinn, protagonista ne La città di vetro di Paul Auster, arriverà a disegnare su una mappa i percorsi di Stillman, un individuo che sta pedinando. Questo genere di comportamento non può che farci pensare al flâneur, che per osservare la realtà urbana nei suoi intrecci, deve essere padrone del suo tempo ma insieme inseguirlo, adeguarsi ai cambiamenti dei flussi della popolazione, a volte sincopati, altre volte ciclici, altre ancora imprevedibili.

Metamorfosi Urbane.
Se la società moderna si basava sul primato della scienza, della razionalità e nella fiducia in un progresso lineare, quella postmoderna ha la certezza dell'incertezza.

Le città oggi cambiano rapidamente ed il flâneur è sicuramente una figura adatta a cogliere questi cambiamenti. I flussi migratori, da regolari e facilmente individuabili nel primo dopoguerra, sono sensibilmente incrementati negli ultimi anni, sia per quantità che per varietà delle destinazioni. Una conseguenza è la metamorfosi dei quartieri delle città: quartieri industriali che si trasformano in quartieri universitari, cittadini che utilizzano le città in modalità di massa, per lavoro, turismo giornaliero, ecc.

Il flâneur con il suo vagabondare per capannoni in disuso che possono ricordare un quadro di Sironi, è un'anima in prima linea per capire come la città si sta trasformando. Marc Augé ha descritto ampiamente queste metamorfosi a proposito di Parigi, dove la riqualificazione dei quartieri fa sì che essi si somiglino sempre più fra di loro. Un'altra caratteristica di queste trasformazioni è il senso di transitorietà e di instabilità che ne traspare. L'aumento di persone che fruiscono di servizi quali il noleggio di merci, l'aumento di contratti di lavoro a tempo determinato sono tutti indizi che mostrano la realtà di città che cambiano continuamente. È il punto privilegiato di osservazione del flâneur che lo farà passare da semplice fondale delle attività umane a persona preziosamente informata sui cambiamenti alla quale chiedere delucidazioni.

Da Fondale a Protagonista.
La città non è solo il luogo dove avvengono gli intrecci tra gli individui. Essa è liquida come direbbe Bauman ed è dotata di una propria anima, con atmosfere a volte simili a quella del dipinto di George Grosz I funerali del poeta Oskar Panizza del 1917-18
I funerali del poeta Oskar Panizza - G. Grosz - 1917-18

Al poeta Panizza, ammiratore di E. A. Poe e a sua volta stimato da Benjamin, va il merito di aver anticipato la fine della modernità intesa come dominio dell'uomo sulla macchina e per estensione sulla città. Ecco allora che si percepisce il passaggio di quest'ultima da fondale a vera e propria protagonista. Come si è già accennato, gli strumenti più efficaci per documentare e cogliere il senso della città, sono osservatori privilegiati, i flâneur eterni fanciulli  interpreti adatti testimoniare le continue trasformazioni urbane.

Geografia della Narrazione.
Anche se esistono flâneur che non sono intellettuali e viceversa, spesso queste due figure coincidono. Tra gli scrittori contemporanei troviamo una tendenza a citare in modo preciso, geografico, i luoghi dove avvengono le storie dei loro romanzi.

I luoghi urbani sono stratificazioni di storia che si intrecciano con il quotidiano e spesso, questi luoghi hanno una imprevedibilità tale che chi li interpreta compie un atto di natura creativa, drammaturgico. Un modo per raccontare le città è quindi quello adottato dagli scrittori che, attraverso i racconti, narrano anche la geografia dei luoghi. Alcuni luoghi hanno una problematicità interpretativa notevole, si pensi a città storiche come Venezia che accolgono contemporaneamente turisti e abitanti autoctoni, tradizione storica e consumismo contemporaneo del turismo di massa. Il flâneur ambisce a vivere la città in condivisione con la cultura locale, dall'interno, per poter farne un'esperienza autentica e profonda.

Città e Provincia.
Storicamente la funzione del flâneur - cogliere le trasformazioni della città - nasce a Parigi. Parafrasando Baudelaire, si può dire che La modernità è la forma e Parigi è il contenuto.

Dai Tableaux parisiens di Baudelaire:
Parigi è un'altra, ma la mia malinconia
non cangia, e in ogni cosa - vecchi sobborghi o insigni
palazzi, pietre o travi - scopro un'allegoria;
e i miei cari ricordi pesan come macigni.
Lo sguardo sulla città può essere una visione dall'alto, cioè che tende ad individuarne i confini (con un tentato distacco), oppure frontale/stradale, rivolta a cogliere la trasformazione urbana ma anche, come dice Baudelaire, «il luogo in cui la morte arriva al galoppo da tutte le parti»; infine vi è una visione dal basso (Andrés Breton con Nadja racconta appunto i bassifondi).

Se però la città è il luogo per eccellenza abitato dal flâneur, se in passato le sue passeggiate avevano questa meta, non è raro oggi che egli si interessi anche della periferia, e della realtà di provincia. Le città mutano dinamicamente e ciclicamente, ed il flâneur si muove verso i confini e nei paesi abitati dai pendolari.

Due tra le molte esperienze di flânerie recenti sono le testimonianze di Pascale su Caserta (2001) e il reportage sui paesi dell'Irpinia di Arminio (2003). Il libro di Arminio racconta in particolare le trasformazioni subite in seguito al tragico terremoto del 1980.

Reggio Emilia - Luigi Ghirri - 1972 
Un altro esempio di flânerie rurale ci proviene dall'artista Luigi Ghirri con le sue immagini padane. Se il flâneur urbano coglie la continuità della città nel favorire la trasformazione, il poeta rurale testimonia una trasformazione silenziosa, a tratti più drammatica: lo scomparire lento della civiltà contadina e con essa le sue illusioni di naturalezza.

Viaggiatori e Stanziali.
Gli esempi di Arminio e Pascale ci riconducono ad un tipo di flâneurie domestica, d'altronde lo stesso Baudelaire, a parte un unico viaggio dall'esito per altro traumatico, rimase sempre a Parigi.

Possiamo osservare quindi che esistono flâneur stanziali, cioè che rimangono all'interno del proprio campo domestico, oppure che vivono in una stessa città per diversi anni come fece Paul Auster negli anni '70 quando soggiornò a Parigi. Questo tipo di flâneur spesso preferisce sistemazioni economiche, magari camere o case in affitto, poiché il budget è per la maggior parte limitato.

Altri flâneur invece si caratterizzano per un movimento continuo, come fece Goethe quando tra il 1786 e il 1788 visitò l'Italia. La sua meta furono città come Venezia, Roma e Napoli, per poi infine recarsi in Sicilia. Bisogna dire che gli interessi di Goethe erano principalmente indirizzati all'Italia quale «culla della cultura e dell'arte», non propriamente di natura sociale ed antropologica. Il grand tour (così veniva chiamato questo lungo viaggio conoscitivo compiuto dagli aristocratici dell'epoca) era un tipo di flâneurie affatto diversa da quella stanziale, e chi compiva questo percorso spesso lo faceva in modo economicamente agiato, alcuni viaggiavano persino con servitù appresso.

Altro caso di flâneurie itinerante è invece quello di Guido Piovene, lo scrittore italiano che tra il 1953 e il '56 su incarico Rai compì un viaggio in Italia che aveva lo scopo di documentare il nostro secondo dopoguerra. Questo tipo di itinerario, al contrario del grand tour ottocentesco, voleva stabilire un massimo contatto e un'integrazione profonda con le realtà sociali e umane al fine di fare un'esperienza che fosse il più autentico possibile. Stessa cosa per Guido Ceronetti, che dall'81 all'84 compie il suo itinerario in Italia, ampliandolo con alcuni viaggi vent'anni dopo, nel 2004. Ceronetti compie un viaggio quasi schizofrenico, prende appunti e annota citazioni con un ritmo che può sembrare nevrotico e che fa emergere la natura di un flâneur super-eroe che è alla ricerca della verità nascosta sotto l'ipocrisia del mondo contemporaneo.

Interstizi.
Gli interstizi sono quei luoghi opposti a quelli dedicati alla produzione e riproduzione (fabbrica, casa) vale a dire sono i luoghi del ricordo, del silenzio e del vagare. Essi sono le sale d'aspetto, i parcheggi, le stazioni, i cimiteri. Notiamo che i non-luoghi di cui parla Marc Augé sono tutti interstizi. Il flâneur abita anche questi posti, un'esempio è lo sguardo di Ferruccio Parazzoli, una raccolta di appunti dedicati alla metropolitana milanese del 2003. Ancora una volta, il compito del flâneur è quello di riflettere sull'identità delle persone che si trovano in questi luoghi e sulle loro fuggevoli vicende.

Dalle guide alle mappe.
Il rifiuto di seguire percorsi obbligati rispetto alle tipiche guide turistiche ha portato ad una escalation di lettori che a loro volta vogliono essere flâneur e sperimentare in prima persona viaggi e percorsi individuali all'interno delle città. Questo errare porta alla costruzione di mappe personalizzate, interessantissime da visionare. Un esempio è il testo Rovine e macerie. Il senso del tempo del 2004 di Marc Augé. In questo libro Augé racconta le sue passeggiate berlinesi alla ricerca dei resti del muro. Sebbene alcuni studiosi della postmodernità parlano di estinzione della figura del flâneur - e dicono ciò pensando al crescente utilizzo dell'automobile ed ai ritmi che spesso la società ci impone - la scomparsa di questa figura sembra essere tutt'altro che scontata. Già Benjamin ne parlava nel suo saggio del 1929,  Il ritorno del flâneur ed oggi assistiamo ad un ritorno del flâneur forse anche grazie all'utile compito narrativo che gli spetta nella società postmoderna.

Spiriti di servizio.
Le città, ce lo dice Jonathan Franzen nel suo Ventisettesima città del 2002, sono protagoniste e non sono dei semplici agglomerati di costruzioni. Esse sono anche e soprattutto dei tessuti impalpabili di avvenimenti. Quando i flâneur le descrivono, in realtà ne modificano la loro essenza costruendone l'immagine. Oscar Wilde diceva che Londra è diventata nebbiosa solo dopo che gli impressionisti l'hanno dipinta. Dickens e Balzac con i loro romanzi hanno sicuramente contribuito a conferire identità a Londra e Parigi. Sheffield, grazie al film Full Monty, da area industriale in crisi è diventata meta di viaggi. Tutto questo per evidenziare che il rapporto tra città e romanzo/racconto (o anche film e pittura) non è di semplice rappresentazione: il lavoro del flâneur influenza e modifica le città che sono oggetto della sua attenzione. Queste riflessioni sono poi rese disponibili e forniscono un approccio meno superficiale, strumenti utili anche per il sociologo e l'antropologo.

Rapporti di mercato.
Il flâneur è in rapporto con il mercato sia come osservatore che come consumatore attivo. Esistono infatti una serie di prodotti per lui pensati, computer portatili, sistemi di videoregistrazione, articoli per il viaggio. Alcune agenzie hanno addirittura proposto itinerari specifici, come le visite presso case private di artisti o intellettuali nelle metropoli europee. È chiaro che qui non si tratta di autentica flânerie, in quanto il flâneur ha bisogno di perdersi, esplorare le strade e poi da lì ritrovarsi. Dopo aver documentato le proprie esperienze sotto forma di appunti scritti, visivi e parlati, il flâneur spesso produce una raccolta organizzata delle sue esperienze, sotto forma di libri, docufilm o quant'altro. In questo modo si sottopone al giudizio dell'eventuale editore ed infine del consumatore finale. Vale a dire che si mette in rapporto con il mercato sotto un nuovo punto di vista, quello del creatore di contenuti.

Perdersi e ritrovarsi.
In una città popolata da abitanti e turismo di massa il flâneur si pone come terzo elemento, più desideroso di interagire con l'abitante autoctono, che con il turista verso il quale dimostra un certo snobismo. Egli però è anche narciso, quindi si vuole mescolare ma allo stesso tempo ci tiene ad essere riconosciuto. Nel suo desiderio di perdersi ricorda l'eroe mitologico che più gli somiglia, Ulisse, sempre in equilibrio precario tra istinto e ragione, tra curiosità e sobrietà.
Il flâneur vuole perdersi, fare esperienze al limite della sua incolumità ma contemporaneamente vuole essere osservatore di sé stesso e preservare un margine di controllo. Questo controllo gli permetterà di salvarsi anche se in alcuni casi ciò non è avvenuto. Un esempio passato è quello di Pier Paolo Pasolini, «un poeta alla ricerca dell'estasi che ha trovato la morte» [Giordana 1994].
Perdersi, ce lo mostra Paul Auster, significa anche mettersi alla mercé delle coincidenze, degli incontri fortuiti che lo scrittore americano considera principali responsabili dei cambiamenti della sorte.

Conflitti.
Le scienze sociali basate su dati statistici e campionamenti della popolazione non possono sostituirsi al tipo di indagine individuale e non metodologica portata avanti dalla flânerie. Attraverso il suo vagare, il flâneur si espone a due conflitti principali: uno verso gli abitanti indigeni e l'altro verso il turista di massa.
Siccome il flâneur è inserito in una realtà dalla quale può fuggire, egli e la sua disinibizione possono essere visti in cattiva luce dall'abitante locale che invece è legato al suo luogo anche oltre la sua volontà.
Il flâneur può però ripagare questa «intrusione» con la sua produzione artistica. Ad esempio, itinerari d'autore come la Milano di Buzzati, la Maremma di Cassola, la Firenze di Pratolini e la Trieste di Svevo, non possono che arricchire culturalmente le città che sono state oggetto di queste indagini.
Il secondo conflitto, tra flâneur e turista di massa, è dato dal fatto che il flâneur si considera emancipato dalla provincialità del turista, guidato da pacchetti preconfezionati in un ambiente sempre più stereotipizzato. Se da una parte lo snobba, dall'altra sarà il turista stesso, la massa, a decretare il successo o meno del prodotto artistico del flâneur che è in cerca di riconoscimento pubblico della sua capacità di riflessione e della sua sensibilità.


Persone, manufatti, natura.
I temi fonte di indagine del flâneur possono essere suddivisi in tre ambienti: umano, costruito e naturale.
L'ambiente umano è il mondo della persona. Un esempio evidente di questo tipo di flânerie ci è dato da Pier Paolo Pasolini, e dalle sue ricerche nel sotto proletariato romano. I suoi personaggi sono a loro volta degli erranti e inconsapevoli flâneur che si muovono e si perdono nella bolgia metropolitana.
L'ambiente costruito riguarda gli edifici, le strade e le architetture urbane. Lewis Mumford nel 2000 scrisse Passeggiate a New York, un trattato urbanistico e architettonico sulla società americana. Per Mumford, gli strumenti più efficaci del flâneur sono la pratica dello scrivere ed il camminare. A questo proposito segnaliamo l'esempio di Gillo Dorfles, che sul Corriere della sera propone la sua camminata a Milano, da Porta Venezia a Porta Cadorna. Esplorare la città a piedi offre il tempo necessario per assimilare, capire ed immergersi/perdersi nell'ambiente circostante.
Infine l'ambiente naturale è chiaramente ciò che la natura ci propone. Goethe nel suo viaggio in Italia, tra le altre mete, si è anche spinto fin sopra il Vesuvio, proprio sul cratere.
Per il flâneur queste tipologie di ambiente non rimangono isolate tra loro anzi spesso si fondono anche perché una delle caratteristiche del flâneur è appunto quella dell'errare e del perdersi senza meta per poi ritrovarsi.

Chicago e dintorni.
La scuola di Chicago è una delle massime espressioni della sociologia. Se da un lato sembra essere in contraddizione con la pratica della flâneurie, dall'altro ci sono delle similitudini. Se per un verso essa considera insufficiente alla comprensione completa dell'ambiente il lavoro seppure preziosissimo di romanzieri del calibro di Zola, dall'altro considera inevitabile l'osservazione dei fenomeni sociali all'interno del loro ambiente naturale, proprio come fanno i flâneur.
La scuola di Chicago è stata anche influenzata da una certa letteratura naturalistica, da scrittori come Upton Sinclair e Park, che parlerà della mentalità del vagabondo, una sorta di poeta viaggiatore di cui Walt Whitman è un esempio peculiare. Sue infatti sono le parole «che mai credete possa soddisfare l'anima, se non camminare libero e non riconoscere padrone?».
Questo vagabondare è però visto in modo meno romantico, data la sempre minore possibilità di perdersi. A tal proposito è utile notare che grazie ai waydesigners - coloro che si occupano delle insegne negli aeroporti, nelle stazioni eccetera -  oggigiorno smarrirsi è sempre più difficile. Se questi elementi da un lato ci donano sicurezza, dall'altro negano l'esperienza del viaggio inteso come frattura dalla routine quotidiana.
Un esempio che descrive il calarsi del flâneur nella realtà urbana è il già citato L'uomo della folla di Poe. Nuovamente troviamo il rapporto complicato di attrazione/repulsione che il flâneur ha nei confronti della folla, oggetto della sua indagine. Il soggetto di Poe è infatti un essere errante e frenetico che pur non essendo a proprio agio è costantemente attratto dall'ambiente caotico rappresentato dalla città e dai suoi abitanti.

Sguardi di parte.
L'interpretazione della realtà da parte del flâneur resta, per quanto accorta e profonda, una valutazione parziale della realtà. Si tratta di uno sguardo di parte principalmente perché i flâneur sono per la maggioranza uomini. Ciò ha le sue radici nel contesto storico: fino alla prima metà del XX secolo le donne si muovevano per la città con dei motivi concreti. Andare a fare la spesa, accompagnare figli erano e sono alcune delle ragioni per cui molte donne si muovevano e si muovono nella metropoli, mentre il flâneur, per essere tale, necessita di errare senza meta. Detto questo, bisogna però notare anche che la donna sola in città può acquisire la connotazione della tentazione e del peccato. Un esempio è dato dalle prostitute. La città, garantendo l'anonimato, favorisce lo svelamento, l'outing. 
Grazie all'emancipazione oggi vediamo invece un'inversione di tendenza e troviamo sempre più donne che ricoprono il ruolo di flâneuse. La presenza oggi della donna per le strade della città non è più sinonimo di connotazione negativa.
Il genere non è la sola origine di parzialità nello sguardo del flâneur. Molto spesso il flâneur è infatti di estrazione sociale medio alta, con una certa cultura e con i mezzi economici adeguati, per potersi permettere in modo continuativo il suo errare e vagabondare che porterà poi alla trasformazione della sua esperienza in un prodotto culturale. È vero però che esistono anche gruppi di persone meno agiate che rifiutano l'esperienza del turismo di massa e, nonostante i mezzi limitati riescono a vivere l'esperienza in modo autentico.
Infine non si può negare l'influenza che i media hanno sulla nostra percezione delle città. Per quanto uno ne possa essere consapevole, in parte si verrà inevitabilmente influenzati da luoghi comuni, descrizioni precedenti, immagini tipiche e ricorrenti.

Flânerie e ricerca sociale.
Parlando di flâneur, il risultato del suo operare si concretizza in fotografie, video, romanzi, diari, reportage giornalistici. Questi documenti potranno avere un certo grado di fiction, per questo lo scienziato sociale dovrà porre un filtro ex post, su questi materiali qualora desideri utilizzarli nelle sue ricerche. I rapporti di collaborazione tra scienze sociali e flâneur a volte sfociano nella flânerie su commissione. Ne è un esempio il caso di Eugenio Gazzola, critico d'arte e giornalista che venne incaricato di trascorrere del tempo a Monza e a Sesto San Giovanni per valutare la qualità della vita in questi luoghi. Il reportage scritto e fotografico che ne è scaturito ha dato informazioni nuove rispetto ai metodi di ricerca tradizionali. Sono emerse problematiche quali i bar affollati nella pausa lavoro di mezzogiorno, scenari desolati di fabbriche abbandonate, cascine agricole sopravvissute alla scomparsa del mondo agricolo.
In questi casi la flânerie non intende sostituirsi ai metodi di indagine tradizionale, piuttosto la si deve vedere come una preziosa integrazione di dati e punti di vista al lavoro già svolto dalle scienze sociali.
Inoltre, il dinamismo delle società attuali, la modernità liquida così come la descrive Bauman, rende i metodi di indagine tradizionali meno efficaci di quanto lo fossero in passato. Ecco che il vagare  errante del flâneur si offre come alternativa all'approccio analitico della scuola di Chicago.
Per Bauman esistono due tipi di verità, quella scientifica e quella artistica. Il rapporto tra narrativa e sociologia è un rapporto fatto di attrazioni e repulsioni. Se è vero che i sondaggi, i censimenti e i questionari offrono un metodo di indagine regolare ed affidabile, sappiamo però che per avere un quadro completo della situazione ciò non è sufficiente. Nell'epoca post moderna o surmoderna possiamo assistere a forme di flânerie avanzate, una di queste è la Public Art, intesa come arte al servizio del cittadino. Il ruolo della Public Art è quello di sensibilizzare e stimolare la percezione del cittadino.

Epilogo.
La città contemporanea cambia in continuazione, è frammentaria e rispecchia le contraddizioni dell'epoca attuale che sono: globalizzazione vs desiderio di appartenenza, razionalità vs istinto, stanzialità vs viaggio. La funzione del flâneur è quella di immergersi in queste realtà, venirne coinvolto quasi completamente, riservandosi una porticina di uscita che a volte però rimane chiusa.
Il rapporto tra città e narrazione è bidirezionale: la città, con il suo esistere, è materiale per le narrazioni, ma le narrazioni a loro volta modificano l'essenza della città.
Un esempio è dato dal dipinto di Renato Guttuso Vucciria, rappresentante il quartiere-mercato palermitano che un tempo era simbolo della città. Il dipinto, non solo descrive un'atmosfera, ma contribuisce a fissarne una raffigurazione nell'immaginario collettivo.
Solo recentemente il flâneur è stato legittimato nel ruolo di interprete della società. Detto questo il suo prodotto servirà da integrazione al lavoro del sociologo.
Osservare il flâneur d'altra parte è molto difficile in quanto egli è per natura fuggevole. Attraverso le sue opere sappiamo che spesso coincide con la figura dell'artista e che si tratta di uno sguardo prezioso su questo mondo che cambia.


«Il camminare è filosofia di vita, è predisposizione alla riflessione e all'ascolto, è simbiosi di esercizio fisico e intellettuale»

Duccio Demetrio, Filosofia del camminare (2005)
«L'idea di fredda, inaccessibile grandezza, che la duchessa Eleonora di Toledo porta con sé della patria,  trova la più immediata espressione nel Bronzino, pittore di corte nato, con quelle sue forme nette e cristalline: il suo ambivalente rapporto con l'arte michelangiolesca e con il problema spaziale, e specialmente quella sua intima contraddizione che fu chiamata disagio dello spirito sotto la corazza del contegno, ne fanno il perfetto tipo del manierista.»

Harnold Hauser - Storia sociale dell'arte, manierismo
«Che ne sappiamo? non sarebbe meglio vivere e morire sconosciuti? Che beffa, se questa gloria dell'artista non esistesse più del paradiso del catechismo, di cui anche i bambini oggi ridono! Noi non crediamo più a dio, crediamo alla nostra immortalità... Ah! miseria!»

«Bah! Che ti frega? non c'è niente... Noi siamo più folli ancora degli imbecilli che si ammazzano per una donna. Quando la terra schiatterà nello spazio come una noce secca, le nostre opere non aggiungeranno un atomo alla sua polvere»


Sandoz e Claude Lantier - L'opera - Emile Zola
«Se i mezzi sono così leggeri, se la loro forza espressiva è esaurita, allora si deve ritornare alle fondamenta. Cioè ai principî... Allora i nostri quadri diventano purificazioni, gradini di una cauta demolizione... È questo il punto di partenza del fauvismo: il coraggio di ritrovare la purezza dei mezzi. Riuscii a studiare ogni elemento della costruzione isolatamente; il disegno, il colore, i valori della composizione... Cercai di scoprire come si possono riunire i singoli elementi figurativi in un tutto in cui si esprime in tutta la sua pienezza la qualità innata di ciascuno. In altre parole: badavo alla purezza dei mezzi.»

W. HESS - Problemi della pittura moderna, cit. di Henri Matisse